domenica, ottobre 09, 2005

The Coney Island of MY mind


Driving a cardboard automobile without a license
At the turn of the century
My father ran into my mother
On a fun-ride at Coney Island
Having spied each other eating
In a French boardinghouse nearby...

[Senza patente al volante di un'auto di cartone
Al volgere del secolo
Mio padre si scontrò con mia madre
Su un autoscontro a Coney Island
Dopo che s'erano spiati mentre mangiavano
In una pensione francese lì vicino... ]

Vestito da marinaio, con una dolcevita a righe, un orecchino al lobo sinistro e un paio di occhiali da vista con un’enorme montatura rossa: Lawrence Ferlinghetti si alza in piedi stringendo il microfono tra le mani e propone sorridente al pubblico di fluxare insieme con i suoi versi. La sala è gremita di persone: la prima impressione è che la maggior parte della gente ci sia solo per esserci. Triste. Io mi sento strana, ho paura che la serata non prenda la piega giusta, che l' evento non diventi evento, che non rimanga impigliato nulla nel cuore, nei capelli, nelle dita. Il lettore delle traduzioni in italiano è un elefante in un labirinto di vetri, la villa troppo splendida e lucida di specchi e argenterie non è Coney Island, il salotto di vecchi signori che scattano frenetici con i loro flash intorno al Poeta non è un fumosa sala alcolica di jazzisti che suonano il loro bop indiavolato; non ci sono Jack Kerouac o Neal Cassady, o Philip Lamantia, o Gregory Corso o Allen Ginsberg o Peter Orlowsky. Non ci sono più. Ma Lawrence fa finta di non accorgersene sgrana gli occhi e legge la sua prima poesia, che è un incanto, che racconta dell'incontro di sua madre e di suo padre a un lunapark, del loro scontro fatale, di un figlio che descrive quell' amore romantico dal sedile posteriore di un auto giocattolo e per l'eternità gli rivolge il suo sguardo più ammirato. Le parole si riflettono nei vetri della villa e vanno oltre gli occhi delle persone che si fanno aria con il programma della serata. Le parole rimbalzani lungo le pareti, si rincorrono, restano sospese a mezz'aria come stelle momentanee, come costellazioni linguistiche. Io dico il mio -sì- profondo, interiore, sento la pancia sciogliersi e la vista appannarsi, lo stesso brivido di quando a Milano, in un pomeriggio del 2002, finii non so come a comprare “A Far Rockaway of the heart”, senza riuscire da allora a smettere di amare le poesie di quest'uomo. Che ha 86 anni, ha visto molteplici versioni della sua America, ha amato l'Europa, ha conosciuto artisti e ha collaborato con loro, ha scritto di vagabondi, prostitute, gabbiani, pesciolini, newyorchesi, lucciole,grilli, ha guardato la vita attraverso la sua maschera delicata e malinconica. Si è lasciato travolgere dalla corrente dei giorni senza perdere la Speranza in un mondo diverso, in un modo diverso di guardare il mondo di viverlo, di leggere gli indizi premonitori di grandi rivolgimenti nelle cose più piccole e apparentemente insignificanti. Ferlinghetti ci insegna che la poesia è l'ultimo nemico non violento dello Stato e spesso il più minuscolo degli insetti può minare le fondamenta del più solido dei palazzi.

Basta volerlo.

Siamo noi a dovere combattere i disequilibri della società di cui facciamo parte, uscendo dal nostro ruolo di maggioranza silenziosa, coltivando il lato magico di noi stessi, la nostra cultura, il nostro amore per le cose belle e per la vita come miracolo di meravigliose moltiplicazioni del reale.




3 commenti:

Anonimo ha detto...

Purtroppo, prima di adesso per me Ferlinghetti era soltanto un nome. Prima del post ho letto una biografia abbastanza dettaglia della solita Fernanda Pivano, trovata molto semplicemente tramite google.
Ho letto, poi, il post tutto d'un fiato, con la massima concentrazione. Mi sono commosso, anzitutto per i quattro versi che hai citato, infinitamente delicati infinitamente, e poi per come hai scritto quello che hai scritto.

Rivedo me stesso dopo certi concerti, rivedo me stesso dopo il reading del mio mitico Paolo Nori l'anno scorso a Torino. Rivedo me stesso che esco dagli "eventi" saturo di sensazioni e di idee e di emozioni. Salvo poi perdere tutto come quando uno perde il calore accumulato dentro il giubbotto nel momento in cui se lo sfila via arrivato a casa.
Ti invidio infinitamente, infinitamente, questa capacità di non perdere il calore, di trasformarlo in parole che - sono sicuro di non essere il solo - arrivano limpide e lucide a chi le legge, passandogli emozioni e sensazioni e tutto.

Ho letto adesso "Song". Perdonami, piuttosto, se non l'ho fatto prima. Tu sei d'accordo con Allen? Il peso del mondo è l'amore?
Sì, mi vien di rispondere. Sì, in realtà, è stata la risposta che ho sempre dato da quando ho il dono dell'"opinione". Ma oggi sento che non è solo quello - e non parlo solo di amore fra due esseri umani. Forse la solitudine è più forte dell'amore, forse De Andrè ha detto la verità dicendo che "quando si muore si muore soli". Forse nemmeno l'amore può dirci tutto...

quel che sapeva frà ha detto...

Leggo, rileggo. Non sono l'unica a trasmettere emozioni in parole. E spero non ti arrabbierai se ti dico che per il momento non sono capace di risponderti.
Perchè ho bisogno di più tempo, di più calma e non essere qui a pensare che domani devo alzarmi il prima possibile e affrontare una spinosa discussione con l'amico della A maiuscola e studiare tutto il giorno. Mi aspetti? A presto

Anonimo ha detto...

Aspetto esattamente come la batterista degli Yo la tengo aspetta prima di lasciare andare la sua batteria in Blue Line Swinger, penso fra le mie cinque canzoni di sempre.
Piuttosto, non voglio costringerti a rispondere o che. Ti ho semplicemente voluto comunicare ciò che avevo pensato leggendo quelle righe.