mercoledì, giugno 29, 2005

* range life

Ha piovuto oggi.
Mentre tornavo a casa sul cavalcavia hanno iniziato a cadere goccioloni giganti sul parabrezza, sciaf sciaf sciaf.
Qualche fulmine all'orizzonte, un tipo su una panda ne tampona un altro su una twingo.
Restiamo fermi in coda per un po', io tengo il tempo sulla frizione mentre ascolto i Pavement e penso prettamente ai fatti miei.
A come con questo cerchietto rosso dimostro appena sedici anni e mi sono pure spuntate le lentiggini per il sole.
A come sentissi un bisogno quasi fisico di pioggia, di rumore di pneumatici sull'asfalto umido, di vento grigio.
A come nonostante questo improvviso temporale la mia lercissima fiesta necessiti di essere lavata.
A come certe volte le cose che luccicano quando poi le prendi in mano bruciano molto più di quanto potessi immaginare.

martedì, giugno 28, 2005

* un giorno perfetto (?)

Finalmente sveglia alle dieci.
Sveglia nel senso di “in piedi”, perché da qui a dire che sono veramente sveglia passeranno ancora due, tre, quattro ore, forse un’intera giornata.
A volte mi succede di non riuscire a liberarmi completamente della patina onirica notturna, è un po’ come una coperta di Linus che mi trascino durante tutta la giornata, se qualcuno mi rompe ci infilo la testa dentro e torno a dormicchiare in quella pacata morbidezza sognante.
Non un vero e proprio sonno ma una specie di veglia, con un occhio chiuso e uno aperto a controllare che non accada niente di troppo fondamentale intorno, niente per cui non sia strettamente necessario intervenire all’istante.
E a dirla tutta i momenti “coperta di Linus” non sono mai casuali:
fanno parte di determinate situazioni in cui mi ritrovo a non volere affrontare una serie di pensieri che so benissimo essere lì fuori da quasi due giorni, in piedi davanti al citofono del cervello con il dito piantato sopra a protestare perché faccio finta di non esserci.
Per il resto sotto la coperta in questi giorni è tutto molto gradevole.
Ci sono tranquillità, buona musica, alcuni libri nuovi di pacca (tra cui il metafisico -Metapop-) e una manciata di certezze appena, ma sufficienti a dare all’impasto un aroma particolarmente piacevole.

lunedì, giugno 27, 2005

"La bellezza di questa giornata
è che non tornerà indietro
ma ogni giorno se lo vuoi
sarà un giorno perfetto"

venerdì, giugno 24, 2005


§ Ieri notte: mezzanottemezza.
...succhiata via dalle zanzare letteralmente, ho le gambe devastate come se avessi trascorso la serata a vagare nelle paludi vietnamite con l’acqua fino alle ginocchia.
E me ne frega ben poco a dirla tutta, mi sdraio sul letto e continuo la lettura di Metapop, acquisto nuovo di pacca, il giorno in cui riuscirò ad uscire da una libreria senza aver comprato niente forse potrò dire di esserne fuori.
Moby Dick rimasto aperto sul comodino mi lancia un’occhiata di gelosia ma lo tranquillizzo subito accarezzandogli la copertina
–Continuerò a leggerti tesoro, questo è solo l’entusiasmo della novità-.
E va a finire che ne leggo due insieme come al solito.

§ Stamattina: orecinque.

...di nuovo sveglia a un’ora davvero improbabile, e considerato il click della mia abat-jour scattato alle ore due, la cosa ha davvero del patologico. Neanche Giovanni Soldini durante l’Around Alone dormiva così poco. Dato che sono in camera mia e non su una barca a vela dispersa nel Pacifico, decido che alzarsi è una mossa assolutamente azzardata e che è il caso che cerchi di riprendere sonno. Così cerco con il braccio prensile di raggiungere il lettore mp3 sul pavimento e mi accendo la voce sottile di Emiliana Torrini nelle orecchie…(summerbreeze)

§ Stamattina: orenove.

...quando mi sveglio di nuovo Amanda ha preparato il caffè freddo con l’amaretto per colazione. E’ divertente, insomma, c’è gente che beve latte e cereali mentre io e lei stiamo sedute sul balcone a sorseggiare questo beverone terribilmente alcolico (alla piccola sorella è scappata un po’ la mano).
Si evitano con accuratezza chirurgica discorsi troppo impegnativi, maturità per lei, problemi di amicizie per me. Si parla dell’eccessivo tasso alcolico della colazione e di quell’insopportabile volpino del palazzo di fronte che da quasi tre ore si esibisce in un festival di petulanze canine.

§Il futuro non può attendere: nelleprossimeore.

... io che devo raccogliere il mio coraggio, sperando di riempire qualcosa di più di una tazzina di caffè e andare da una persona a dire la famosa verità, che poi sarebbe che sono felice, felice a quel punto in cui non hai più il controllo della situazione e te ne accorgi, e inizi ad avere paura, paura che qualcuno possa arrivare da un momento all’altro a chiederti di restituire il tuo premio fino all’ultimo cent e allora probabilmente finisce che non dormiresti mai, perché mentre dormi ti perdi qualcosa, dei momenti, delle sensazioni, dei pensieri.
Solo che ho idea che la mia felicità la renderà parecchio triste.
E mi dispiace che si debba obbligatoriamente scegliere se salvare capra o cavoli.
Ma questa volta la capra mi ha esplicitamente belato contro che –se non scegli me, saranno cavoli amarissimi- e io l’ho ascoltata.
E ho fatto bene.



martedì, giugno 21, 2005


(Ops, mi sa che stavolta sono felice)

domenica, giugno 19, 2005


-(If you ever need a stranger)-
Io chiamerei Jens Lekman a suonare una canzone al mio matrimonio.
Domenica mattina, una di quelle brutte domeniche in cui il primo piede a toccare il suolo è quello sinistro, e sono stanca, triste e facile all'arrabbiatura.
Che quando scopro che è finito il caffè quasi sto per dare di matto, proprio.
Allora mentre faccio colazione con una tazzella di the del discount color giallo paglierino mi schiaffo il lettore mp3 nelle orecchie, ascolto Jens Lekman e mi calmo parecchio.
E chi le toglie più le cuffie adesso.

sabato, giugno 18, 2005

* Judy and the dream of horses

Sabato.
Resto seduta di fronte alla scrivania ingombra di appunti, sottolineature, libri aperti e chiusi, matite, righelli, evidenziatori scarichi e no, fogli bianchi e fogli pieni di scarabocchi e ghirigori.

("she gave herself to books and learning she gave herself to being number one")
Finita la benzina forse, mi sento piccola come una zanzara, una delle tante che ronzano nell'aria calda della Seattle piemontese.
E' arrivata l'estate, decisamente.
Fuori è pieno di persone che succhiano granite, passeggiano, si abbracciano, ridono, chiacchierano, sfoggiano la prima abbronzatura da piscina.
Io apro piano il palmo della mano nella penombra della stanza e al posto di lucciole brillanti ritrovo le consuete sottili linee fatali tracciate sulla pelle.
("Judy never felt so good except when she was sleeping")
Così penso che studierò un paio d'ore, passeggiando dentro al silenzio di tutte queste pagine piene di parole e andrò a dormire, come faccio sempre.
Perchè io sono così, io vedo tutte queste ombre scendermi addosso e cercare di rubarmi i colori che ho dentro la testa e allora chiudo gli occhi e aspetto che passino, come facevo da piccola quando c'era un temporale e avevo una fifa buia dei fulmini, della luce che inondava di colpo la mia stanza, e mi cacciavo con la testa sotto le coperte, perchè con gli occhi chiusi si sentiva soltanto il rumore e non era la stessa cosa, non faceva la stessa paura.
(" Walking the street from morning to night with a star upon your shoulder
lighting up the path that you walk with a parrot on your shoulder,
saying everything when you talk
If you’re ever feeling blue
then write another song about your dream of horses")








martedì, giugno 14, 2005

* be gentle with me


Poco tempo oggi per scrivere, poche ore di sonno alle spalle, ho sognato che dovevo scattare un miliardo di foto in due ore e avevo male all’indice a forza di premere l’otturatore.
Molte, molte pagine da studiare, molte solo sfogliate, molte guardate con preoccupazione, alcune saltate sconsideratamente..
Due ombrelli dimenticati in un bar da me e Louise che camminiamo sotto la pioggia totalmente assorte nei nostri discorsi.
Trenta centesimi di acqua naturale, un’ape che mi si è appoggiata sulla testa.
Mezzo litro di coca cola sorseggiato tra una sottolineatura e l’altra, molti evidenziatori scarichi, molti fogli riciclati.
Un paio di sigarette per fare economia. Un paio di caffè e anche parecchio leggeri.
Molta, tantissima voglia di finire questi esami e di godermi l’estate con il braccio fuori dal finestrino della macchina continuando ad ascoltare i The Boy Least Likely To.

(...I’m happy because I’m stupid)

lunedì, giugno 13, 2005

* I need some sleep

  • Stamattina appena sveglia, con quella sensazione di essere riemersa da un posto estremamente più gradevole del contesto di questo lunedì 13 giugno, ho dato un’occhiata al cielo e mi è sembrato trattenuto; poi sono andata a vestirmi sulle note di Absolute Beginners, tratto dal Best of gentile concessione di un amico –Prendi pure, quella roba lì l’ascolta solo mia mamma-
    (A me D.B. piace, sono innamorata di lui da quando a sette anni ho visto Labyrinth).
  • Venti minuti dopo ero seduta in un’aula vuota con le luci spente e le tapparelle giù in attesa di dare il mio esame. Del professore e di altri studenti nessuna traccia, il cielo fuori continuava a trattenersi e io continuavo ad avere un sonno tremendo, per restare sveglia mi sono messa a giocare con i cordini metallici delle tende.
  • Mezz’ora dopo ecco il professore con una camicia rosa delle più terribili camicie rosa che io abbia mai visto. Penso che se continuo a fissarlo in quel modo capirà che non approvo la sua camicia rosa e allora sfodero un sorriso da studentessa imbarazzata, immergendomi nella falsa lettura di fogli che dovrebbero essere appunti, in realtà sono scarabocchi di animali stilizzati prodotti durante una delle sue lezioni.
    Passano dieci minuti di sterili chiacchiere da un lato all’altro della cattedra ma
    -l’interrogazione può attendere- (d'accordo James Bond)
  • Ci trasferiamo nel suo ufficio dall’altra parte della città, il cielo non si trattiene più e cammino zavorrata da registri di varia natura sotto la pioggia battente. Il professore ha un ombrello piccolo che però tiene sulla sua testa fingendo di riparare anche me. Maledetto. La conversazione langue, io vorrei tirargli un calcio sugli stinchi e inzuppare i registri dentro a un tombino. Inizio senza troppa convinzione un discorso sul rapporto tra Kafka e la fotografia che dopo un paio di periodi cade dentro a una pozzanghera e fa sciaf.
  • Arrivati all’ufficio l’uomo rosa mi chiede altri cinque minuti in cui va a prendersi un the mentre io resto seduta in questo lungo corridoio deserto e grigio ad ascoltare il rumore delle gocce d’acqua dei miei pantaloni che cadono sul pavimento.
    Inizio ad avere paura, è la seconda volta nell’arco di un paio d’ore che mi ritrovo in luogo senza presenza di anima viva alcuna. Un ragazzo venuto a discutere problemi relativi alla sua tesina mi passa davanti. Sono umida come una muffa alpina.
  • Finalmente entro in ufficio mi siedo e mi sorbisco con pazienza certosina quaranta minuti abbondanti di domande chirurgiche su tutta l’arte americana di ieri, oggi, domani.
    Date di esposizioni, titoli di quadri, nomi di artisti, elementi plastici, elementi iconici, e altri cazzi e mazzi di vario genere. E zac. Commetto l’errore di affermare che gli Stati Uniti hanno una storia relativamente recente rispetto all’Europa.
    Il professore rosa puntualizza che Gertrude Stein non la pensa così. –Secondo la Stein l’America è il paese più vecchio del mondo- Lo guardo con espressione da lemure, ho le all star vecchie coi talloni sfondati e le calze zuppe d’acqua, un livido sulla coscia grosso come un portacenere che mi pulsa, devo bere un caffè e devo ancora andare a votare. Che l’America sia giovane o vecchia non mi pare poi molto fondamentale. Il rosafante mi offre 29 e io accetto pensando –ancora solo tre esami- e anche –spero che al ritorno diluvi e ti si rompa l’ombrello-
  • Ci sarebbero altre cose da dire. Sulla devastante esperienza fotografica di ieri sera, sui The Boy Least Likely To. Ma... -il prossimo post può attendere-

venerdì, giugno 10, 2005

*the possibilities

Friday at home,
è arrivato quel magico momento prima degli esami in cui hai accumulato talmente tanta roba da studiare che anche Pico della Mirandola direbbe –Eh no raga, a ‘sto giro passo la mano- e andrebbe a farsi due passi Pico, nella Seattle del Piemonte fresca e deserta, con la prima stella della sera che brilla proprio sopra la mia finestra in mezzo al cielo ancora giallo quasi verde non ancora blu.
E c’è un vento leggero che spettina i capelli di Amanda freschi del mio phon e profumati di lacca, mentre sale in macchina e non sa che la sto spiando dal balcone.

-Ciao, ti mando un messaggio più tardi per dirti dove siamo-

Ultimo giorno delle superiori per Amanda, cena con le compagne di classe e poi forse a ballare, che lei non balla ma scommetto che per l’occasione potrebbe anche ballare e divertirsi e ridere di niente e vedere che effetto fa.
Che a volte mi chiedo se non le ho rubato un po’ di sana scemenza giovanile, se l’ho tirata su troppo responsabile questa sorellina di un metro e ottanta che mi chiede di sceglierle le scarpe giuste per i jeans e mi manda a quel paese mentre sto intorno a farle foto mentre si lava i capelli in mutande insistendo per immortalare ogni secondo di questo giorno che le assicuro essere unico nel suo genere.
Mentre mi affanno a cercarle una borsetta introvabile e le faccio i capelli e le metto l’ombretto penso a quanto siamo diverse, io e Amanda.
In quel momento, nella vita.
Eppure credo che sia in assoluto la persona che mi regala più luce nel mondo.
Anche quando non parliamo, anche quando ci vediamo soltanto quei cinque minuti la sera prima di chiudere la porta delle nostre stanze e andare a dormire.
Forse è che con lei mi sento a casa, sempre.
Così le auguro di divertirsi tanto questa sera, di godersi i suoi splendidi diciotto anni, roba che non torna più e non te lo dicono mai abbastanza o forse sei tu che non vuoi capirlo perché credi siano faccende noiose da adulti nostalgici e ancora non immagini che da lì a poco la vita inizierà a ingarbugliarsi come le cuffie del walkman se lasci in giro per la borsa.

Io invece concludo il post e torno a rituffarmi nello studio di Warhol, Rauschenberg (?), Johns e un altro centinaio di artisti americani che bussano con insistenza alle porte del mio cervello.
Fuck knowledge!

(Micah P. Hinson -The Possibilities-)




giovedì, giugno 09, 2005

*these days

Prendi una mattina di giugno, un giovedì mattina, gli occhi aperti nella penombra della stanza alle nove quasi e dieci, una stanza ricoperta di dispense in ogni dove e fogli e quaderni e strane sigle di appunti che stanno a indicare misteriosi collegamenti mentali di cui non ricordi il nesso e vestiti appallottolati da tutte le parti e Moby Dick aperto sul comodino, che ti piace un sacco ma la sera sei stanca e crolli dopo una ventina di pagine.
Prendi di avere un esame lunedì mattina e di non essere preoccupata per niente, anche se sei indietro, anche se siete solo in due e potrebbe scattare l'opzione culo a capanna, anche se dopo quello ce ne sono ancora solo un paio e poi hai finito 'sti tre anni, finiti, e non hai la più pallida idea di cosa fare.
Prendi una serie di giornate strane, prendi quella strana voglia di non prendere più nessun tipo di decisione e limitarti soltanto ad andare in giro con le dita incrociate sperando che vada tutto nel migliore dei modi perchè sei stufa di cose che non funzionano, di discorsi che dovrebbe andare oltre e si fermano alla dogana, di situazioni che potrebbero essere meravigliose se non fossi tu, se non fossi il solito guazzabuglio di complicati equilibri.
E prendi Nico che canta -These days I seem to think about how all the changes came about my ways and I wonder if I'll see another highway- mentre ti lavi i denti in bagno e fai finta che quella canzone non ti appartenga per niente perchè tu stai iniziando a stare bene, perchè questo è il momento in cui dovresti mettere la testa a posto, scendere dal veliero kamikaze e accontentarti di quello che c'è come tutto il resto del mondo.

mercoledì, giugno 08, 2005

Un’ora di smorfie nel corridoio di un’ospedale con un bambino che avrà avuto 4 anni e mi ha regalato una serie di sorrisi talmente carini che quasi quasi mi scioglievo lì sul pavimento.
In mezzo a tutte quelle persone arrabbiate o nervose per la coda, vecchie, giovani, stanche, impazienti c’eravamo io e lui che ci divertivamo come matti a farci le boccacce da una parete all’altra, senza bisogno di parlare.
Mi piacciono tanto i bambini, hanno quella luce speciale che ti aiuta a credere ancora che il mondo non fa proprio tutto schifo ma ci sono delle cose talmente belle che non sai nemmeno capire bene com’è che funzionano, come fanno a essere così splendide.
Sono rimasta lì seduta sulla mia sedia con il mio biglietto rosa in una mano e nell’altra una pallina da fare scorrere sul pavimento, sotto le gambe dei dottori, delle infermiere, di Alberto, che rideva, rideva felice, e sembrava proprio divertirsi un mondo, a giocare con un gatto che si avvicina un passo alla volta e miao, mica mi prendi.
Alla fine è andato via con la mamma e il papà, mi ha fatto ciao con la mano proprio un attimo prima che entrassi nella sala prelievi.
-ciao-
La mano che si apre e si chiude.
-Apra e chiuda la mano. Ancora un po’. Ok grazie basta così-
Distesa sul lettino chiacchiero col dottore di piscine e zanzare.
Forse è vero che si finisce col farsi l’abitudine ad ogni cosa, io che ai miei primi esami del sangue sbiancavo e andavo giù come un sasso, mi sono limitata a fissarmi le all-star azzurrognole e a fare qualche battuta sull’iper-apprensività di mia madre.
Non ho sentito quasi niente, mentre il sangue correva nel tubo verso le provette, una, due, tre, quattro, io nella testa vedevo Alberto che mi faceva la lingua e i denti bianchissimi e mi mandava i baci dondolandosi come un peluche.
-Finito. Sta bene? Per i risultati tra una settimana, arrivederci-
Sì grazie, arrivederci.
Chissà poi se le persone si incontrano per caso o per un motivo ben preciso, per non essere troppo tristi, per non sentirsi soli, per non avere paura.

lunedì, giugno 06, 2005


(...)

Non è una bella foto, me ne rendo conto ma avevo voglia di appenderla qui.
E' pur sempre un cielo
e un cielo ha sempre qualcosa da dire.

sabato, giugno 04, 2005

*things you called fate

"Now problems are:
I have no bags to pack, no suitcase waiting in the hall
You have no make-up, no stockings in my drawer
Oh, how did we forget?
How could we forget?"
Chi azzecca la citazione guadagna dieci punti di mia stima personale nei suoi confronti.
Giornata strana oggi, una specie di montagna russa che mi ha elevato fino a una quasi sorta di limbo felice mentre appena sveglia ascoltavo Ani a tutto spiano ballando scordinata con le lenzuola in mano e un mare di dispense sconsolatamente aperte sulla scrivania, e che mi ha poi precipitato nell'abbattimento più sconsiderato passo dopo passo verso l'ennesima crocetta sull'agenda della giornata con i piedi pesanti e gli occhi gonfissimi. Mi sarei anche messa a fare due lacrime non fossi stata in mezzo alla strada circondata da ignari passanti che portavano in giro il loro cane a macchie o semplicemente le loro gambe.
Dovrei bruciare l'agenda forse.
O forse dovrei incappare in una botta di culo di quelle grandi così, tipo che ti svegli la mattina e zac trovi tutto sistemato e non c'è stato bisogno di fare fatica, di lottare, di spendersi, non c'è stato bisogno di fare assolutamente niente solo aprire gli occhi e dire -oh, tutto questo mi ci voleva proprio, è meraviglioso-