mercoledì, giugno 28, 2006

La festaccia non é qui

Ho bisogno di dormire.
Più di tre ore, almeno quattro di fila senza alzarmi nel cuore della notte con una temperatura corporea pari a quella di un forno per fissare i colori su ceramica.
Ma non pensate che mi stia dando alla pazza gioia e che le ore piccole siano l'attitudine della stagista all'estero che coglie ogni minima occasione per fare festaccia.
Ecco una serie di motivi che vi porteranno a sfatare questo mito:

a Chambéry la parola festaccia é qualcosa di intraducibile, al di fuori del credo dei suoi abitanti. Qui ci sono solo: biciclette, cordiali francesi che sorseggiano birra con temibili sciroppi colorati dentro ( e che non si ritirano mai dopo le undici), vecchi in bicicletta, bastimenti carichi di bambini che si arrampicano da tutte le parti, vecchi non in bicicletta, alcuni ragazzi vestiti hip hop che ascoltano rap francese (ma che allora fors esono vestiti rap), alcune ragazze punk che mi chiedono sempre soldi e sigarette che non ho all'entrata del supermercato, vecchi, il rottweiller del mio vicino di casa, il trenino turistico. Chambéry é città gradevolissima, lo giuro, ma di festaccia proprio non se ne parla.

in genere arrivo a casa cosi' stanca e cosi' accaldata che fosse per me dormirei un paio di ore prima di affrontare un'eventuale frugale cena MA:

- di solito mi telefona qualcuno proponendomi di "andare un attimo al lago" (che ci si mette un quarto d'ora ad arrivarci e quindi é già una contraddizione in termini)

- la mia quasi connazionale italiana lancia urla lancinanti in cortile per attirare la mia attenzione e chiedermi se posso prestarle
lascopalapalettalapentolaildetersivoquelcontenitorediplastiva
verdechecosi'cimettolinsalata.

- scopro che il minuscolo frigo( in cui per fare spazio a 1 zucchina 1 carota 1 mela devi applicare i più complessi teoremi trigonometria alla ricerca di quel rapporto aureo che ti permetterà di aprire la porta del suddetto frigo senza che i tre elementi si sparpaglino sul pavimento vanificando i tuoi sforzi) é inesorabilmente vuoto;

di notte fa caldo...da non riuscire a respirare, caldo da restare incollati alle coperte come timbres sulle loro enveloppes, caldo come poteva fare caldo solo alle superiori dopo un compito in classe di matematica al 20 giugno. E il vero problema é che se apro le finestre respiro ma alle 4 scarse devo iniziare a subire passivamente il concerto in pompa magna di tutti i volatili della collina antistante il mio studentato, che dopo un paio di ascolti potrei quantificare sulla bilionata. Quei bastardi si riproducono a una velocità impressionante, ogni mattina c'é un gorgheggio in più.

= Se non trovo un ventilatore oggi o domani saro' condannata a un eterno rincoglionimento. Pare che da oggi comincino i saldi e già mi immagino un ventilateur bello, potente, con veloci pale automatiche che trasformino la torrida atmosfera da route 66 del mio letto alla più soave brezza marina del primo mattino=

Incrociate le dita.

martedì, giugno 27, 2006

Post a punti invisibili. Cioé una serie di pensieri sparsi.

I treni ti portano avanti e indietro e basta.
Il resto, gli strappi alla pancia e gli occhi velati sono cose tue, che dipendono da te e non le puoi spiegare.
/Sarebbe più facile se fossimo tutti trasparenti come in quel racconto di Rodari, non mi ricordo quale, ma ricordo che il protagonista era limpido come una sottile lamina di vetro e la gente poteva vedere quello che gli succedeva dentro, se era triste, se era innamorato, se diceva le bugie/
Ho trascorso buona parte della serata di ieri a chiacchierare di filosofia e massimi sistemi con una ragazza francese conosciuta da poco; la cosa più assurda é che in 4 ore di conversazione ho usato un mucchio di parole che non erano mie e ho avuto la netta impressione di doverle staccare dal cervello con violenza e poi cercare di partorirle con l'ordine più logico possibile.
Ma, forse allora sto davvero imparando il francese, anche se ho ancora molto moltissimi pensieri italiani, roba che ci potrei riempire sei scompartimenti di un treno e non ho perso il vizio di tradurre tutte le conversazioni che mi capitano a tiro d'orecchio.
Ho ripreso a leggere, Tabucchi, Seminerio, un libro giovane che parla di morte e rock ma soprattutto di altro (Il rock é morto, l'autore non lo scrivo ha troppe consonanti nel cognome), la notte sogno di diventare una patita del fitness e della dieta e di riordinare il mio studio come si deve. Il resto del tempo, lavoro, lavoro, lavoro anche quando imboscarmi sarebbe la cosa migliore e prendo treni, vedo posti, ascolto musica strana che forse non mi convince più e di fronte a due sacchi di biancheria e a un pavimento che camminarci a piedi nudi é una specie di pena medievale, mi metto davanti ai fornelli cucino un filetto di tonno ballando i bee gees ed esco a comprare le sigarette nella chambéry by night, con francesi che bevono demilitre di birra e granadine e altre strani beveroni zuccheratissimi e colorati come le giostre di gardaland.
Quasi luglio.

martedì, giugno 20, 2006

A Lione, domenica pomeriggio, una ragazza mi si é avvicinata mentre mangiavo un panino e mi ha regalato un fiore. Ha detto che era per me e le dispiaceva fosse un po' appassito, poi ha sorriso e se ne é andata via. Mi é tornato in mente di quando avevo scritto che mi sembrava di avere già vissuto a Lione e ci ho pensato quasi tutto il tempo, con il fiore che spuntava dalla borsa mentre attraversavo traboules e viuzze del centro storico.
Si é messo a fare caldo qui.
Ho conosciuto un po' di gente, ragazzi e ragazze della mia età tutti in Francia per un motivo diverso. Tutti a dirmi ma ad agosto cosa fai qui, non ci sarà nessuno e io tranquilla e serafica a sorridere sotto i baffi per quelle ultime settimane un po' zen che mi ricondurranno a casa.
Chissà come sarà settembre, chissà se anche questa estate passerà senza che me ne accorga, o forse é addirittura già passata.
L'anno scorso di questi tempi passeggiavo per le vie di Seattle con un mattone nello stomaco e la certezza che nella vita sono sempre i gesti irreparabili quelli che ti portano a essere consistentemente più o meno felice.
Le mezze scelte e i mezzi sacrifici sono come saltelli su un piede solo, leggeri, instabili e poco profondi. Quello che serve a volte é solo chiudere gli occhi fare un respiro profondo e lasciarsi andare mani e piedi, vivendo questa consapevolezza interamente. Io di questi tempi, l'anno scorso, mi sono buttata da uno dei più grandi casini della mia vita in direzione di qualcosa che mi appariva talmente brillante da valerne la pena. E per una volta, dopo tanti tuffi in direzioni sbagliate, sono atterrata nell'unico punto piano di una scogliera di scelte possibili, ci ho appoggiato i piedi e non mi sono mossa più.
E spesso ne sono talmente convinta da avere l'impressione di avere già compiuto quella scelta un altro milione di volte, magari quando vivevo a Lione.

martedì, giugno 13, 2006


Grenoble, sabato scorso 2006.

Ogni tanto mi viene la tentazione di salire sul panorama più alto del mondo e restare li' a guardare tutto che si muove, le auto, le persone, finestre aperte e chiuse, fumi di fabbriche, nuvole, alberi, uccelli, strade. Senza nessun rumore, solo un gran vento che cancella le pagine e ne scrive di nuove.

venerdì, giugno 09, 2006

ripescaggi

Le date non me le ricordo; spero solo di aver seguito un ordine più o meno cronologico di ripescaggio ma non ne sono molto sicura.

Una solitaria sigaretta serale davanti alla finestra, la torre del castello sta sospesa in mezzo alle nuvole che sono scese bassissime sulla città. Lo studentato è deserto come al solito, rumore di porte che si chiudono ogni tanto, in una settimana qui avrò incrociato sì e no tre persone in ascensore.. Che qui gli italiani non è che siano proprio ben visti, tutt’altro. Il divertente episodio di quando faccio presente alla direttrice che il riscaldamento non funziona e lei per tutta risposta il giorno dopo mi appiccica sulla porta il libretto di istruzioni che già avevo nella stanza. Per un attimo rifletto se farle presente che il problema non è una mia deficienza mentale ma un apparecchio rotto che ha concluso la sua gloriosa carriera con un’ultima breve accensione seguita da un colpo secco e un forte odore di bruciato.
Mi metto una maglia allora, sempre, dopo cena, perché qui non è alto ma è pur sempre circondato dalle montagne, a meno che di non prendere il caffè vicino alle due piastre elettriche che raggiungono temperature vicine a quella del nucleo terrestre.
Apro la finestra appena un po’, arrotolo una sigaretta sottile sottile e mi perdo nelle nuvole basse, mi perdo in una canzone in particolare che parla di me e per me. Past all concerns.
Forse è una storia d’amore o forse no, non ho fatto molto caso alle parole ma solo al lento trascinarsi di una melodia che raccoglie a rete ricordi e paesaggi. E mi è venuto da pensare che sto diventando rinunciataria. Nei rapporti con le persone. Ormai sempre più incline alle occhiate laconiche che alle sanguigne discussioni. Lascio correre, slego e mi sembra di non avere fatto altro negli ultimi trecento giorni, smettere di esercitare la mia forza su certi nodi lasciando che si sicogliessero lentamente, quasi senza bisogno di sottolinearne la perdita. Vivo una solitudine privilegiata in cui compare solo chi, in fondo, a me ci tiene davvero. E per il resto lascio andare, quasi finalmente, quasi perché è un’epocale inversione di tendenza rispetto a come sono sempre stata. Contro la mia natura. Perché quello che cerco io nei rapporti con le altre persone è talmente raro da implicare una forma di solitudine molto vicina a quella assoluta.
E allora mi viene di nuovo da pensare che essere finita qui, in questa città dove non succede mai nulla, che alla mattina presto vedo sfilare sotto forma di palazzi tutti terribilmente art-nouveau mentre fatico e ansimo con la Graziella vintage spaccaculo, era un posto che avrebbe frenato il più veloce dei treni in corsa facendogli pascolare un paio di vacche davanti. Difficile da spiegare perché non l’ho ancora capito bene nemmeno io.




La lontananza è una sensazione allo stomaco, che per qualche secondo sembra volere toglierti il fiato e che lascia dietro di sé una scia nebbiosa di tristezza e rabbia. Rabbia perché le cose da cui si è lontani sono molte meno di quanto si immaginasse. Rabbia perché non si scappa da niente, il conto viene presentato puntualmente senza differenza alcuna. La lontananza è qualcuno che viene a trovarti dal posto in cui stavi e si porta dietro inconsapevolmente, nascosti nelle maniche, problemi a cui credevi di non dover pensare più. E’ una montagna russa la lontananza, certe volte ti fa credere di aver raggiunto una vetta altissima in cui niente potrà più scalfirti o metterti in discussione. E poi invece ti precipita in abissi abituali, come un videogame anni ’80 in cui per quanto ti ostini a trovare una spiegazione logico-razionale finisci sempre per accorgerti che non c’è. La lontananza è qualcosa che ti fa compagnia mentre mangi uno yogurt all’ananas controvoglia e non faresti altro che bere caffè e fumare una sigaretta dopo l’altra per bruciare quel disagio sottile.
La lontananza sono voci al telefono. E’ accorgersi di non riuscire a capire, è sentirsi una persona malvagia, immeritevole. Stare sdraiati su un prato vicino a un lago e sentirsi lontani, commuoversi per una bambina che fa le piroette in aria e viene sempre afferrata dalle mani di suo padre. La lontananza é accorgersi che arriva un punto in cui quelle mani smettono di afferrarti e si comincia a cadere e a imparare come volare in alto comporti sempre grandi rischi.


Certe volte basta il sole a risvegliare le cose felici che dormivano dentro in una zona imprecisata difficilmente raggiungibile in lunghi giorni di pioggia e faccende domestiche sbrigate a sera tarda con un tasso di stanchezza nel sangue molto al di sopra della media abituale.
Cucino con il sole che entra dalla finestra e illumina tutte le pareti bianche della mia stanza-guscio, canticchio a mezza voce Jimmy Cliff e il fatto di aver trascorso più di sette ore a copiare indirizzi a mano e mettere in ordine alfabetico envellopes di inviti non mi urta minimamente.
Lunedì mattina sono all’Università di Savoia a registrare un libro della Sellerio per creare una versione per non-vedenti.
Insomma più vado avanti più nei miei primi 23 anni di vita posso dire di aver fatto davvero di tutto. La Francia è là fuori, con le sue voci-brusio, i suoi supermercati inaccessibili (un peperone costa un euro!) e le sue centinaia di varietà di yogurt di fronte cui mi incanto ogni volta come alice nel paese delle meraviglie.
Infine sembra che per una serie di fortunate casualità riuscirò ad andare al benedetto concerto dei Belle & Sebastian, regalo prezioso cui mi sarebbe davvero pesato rinunciare dato un impellente bisogno di un concerto di primavera. Per ballare, per pensare all’estate che poi per me saranno almeno due mesi di lavoro intenso ma che va bene ugualmente, mi andrà bene anche seppellirmi nell’afoso agosto di Seattle prima di riprendere in mano le redini del mio futuro.
C’è il sole ed è enorme, bianco, luminoso.
C’è l’aria che profuma di trasparenza. C’è il fornello incrostato di cous cous.
Quello che non c’è non fa poi così paura.


Lione è uno di quei posti in cui sei sicuro di avere già messo piede, in una vita precedente o in un sogno, e questa sensazione finisce per accompagnarti da quando scendi dal treno in una stazione un po’ alla Blade Runner fino a quando non vedi scomparire attraverso i vetri di un regionale gli ultimi tetti della città inghiottiti da un tramonto aranciato.
Lione mi è entrata nel cuore, con le sue case, le sue biciclette colorate, i lunghi ponti come braccia che tengono stretta la città attraversata da due fiumi, che vanno e vengono lenti e maestosi, e qualcuno li guarda passare, dei ragazzi che improvvisano delle percussioni, un signore anziano con un cagnolino in braccio, due ragazzine che fumano e devono birra.
Le città che mi piacciono sono città con un aria di grandezza, una certa allure direbbero forse qui e Lione è bellissima nella sua ricchezza, nelle vie del centro piene di locali alla moda, nelle fontane ordinate e perfette, nelle facciate dei palazzi liberty, ma ancora di più Lione è bellissima nella sua miseria, nei vicoli stretti che odorano di alcol e urina, negli intonaci sbeccati intorno a madonne dimenticate, nel milione di scale che portano alla basilica che si erge maestosa sopra la città e regala un panorama difficile da dimenticare.
Lione è bella per la gente di Lione, che prende il sole, suona agli angoli delle strade, guarda le partite di calcio nelle tivù minuscole di kebabbari e ristoranti tunisini.
Mi lascia triste Lione e non saprei nemmeno dire perché.
Forse è solo il terrore di rovinare l’incanto con uno sguardo su un particolare sbagliato o il rimpianto di non poterci vivere per il momento ma di avere la certezza di averci vissuto, una volta, un giorno, un announ sogno.
Finisce che mi piace una solo foto di quelle che ho scattato.
Ed è un panorama invisibile in cui ci sono solo schiene e ombre e persone che indicano il paesaggio e lo guardano e basta e non si rendono conto di come anche il mondo le stia guardano in quel momento e di come le loro schiene scure siano il paesaggio più bello.





giovedì, giugno 08, 2006

chicomedovecosaquandoperché

Trovato il modo di trasportare sul computer dell'ufficio tutti i miei scritti. E mica un modo originale ma un semplicissimo floppy disk sottratto momentaneamente al Consolato.
Solo che bisognerà trovare una soluzione per non rendere terribilmente anacronistica la mia sequela di resoconti dei giorni passati. Perché a pubblicare di quando mi struggevo dalla malinconia oggi, che non ho nessuna malinconia ma solo un incredibile appetito, mi farebbe strano. Per cui cerchero' uno stratagemma narrativo nel tentativo di non maciullare gli attributi di nessuno con un lagnoso caro diario giorno per giorno. Magari li pubblico tutti a caso i post. L'ultimo e il primo, ieri e un mese fa.
Lasciando perdere queste cose che non interessano a nessuno ma erano una sosrta di trasposizione scritta dei miei deliranti monologhi la mattina davanti al computer veniamo al dunque. Forse non lo dovrei dire perché risulta un' anticipazione rispetto a quello che pubblichero' di precedente. Insomma sto per dirvi chi ha ucciso mister x, chi si nasconde dietro la maschera di y, di chi é innamorata lady m.
Rimango fino alla fine di agosto, ecco tutto.
Ancora un mese nella valle della tartiflette e degli ottimi vini bianchi che mi fanno ubriacare sempre più spesso. Ancora un mese di sveglia anni '8O alle otto del mattino, di fornelli minuscoli in cui cucinare l'impossibile, di grossi rotoli di polvere rosa che si aggirano inspiegabilmente per la stanza come sul set di Mezzogiorno di polvere.
Ancora un mese.

lunedì, giugno 05, 2006

latitanze

Scusate se latito. La verità é che ho perduto la mia penna usb e qui in ufficio é davvero difficile ritagliarsi anche solo cinque minuti di tempo per scrivere due righe in santa pace. Finisce che scrivo sul mio portatile da combattimento, a casa, e annoto tutto li', le peregrinazioni in giro per la Francia degli ultimi giorni, i momenti di quasi tranquillità e quasi felicità, i momenti di sconforto, le incazzature, le scoperte incredibili sull'economia domestica.
E mi spiace perché un blog é un po' come una pianta, bisogna averne cura.
Penso ai fiori che avevo piantato sul balcone di casa a Seattle, che erano diventati graziose pianticelle verdi e che nel mio breve ritorno scopro essere diventati foglioline secche raggrinzite. Che dovesse succedere una cosa del genere al mio blog sarebbe il segno di tempi che stanno cambiando, in cui non mi ritaglio più qualche secondo giornaliero da dedicare al mio irrefrenabile grafismo. Cosi' scrivo stamattina, mi nascondo nell'ufficio con qualche foglio intorno da prendere in mano in caso di incursioni estranee. Inizia una nuova settimana, un'altra e tutto continua a essere sempre più diverso, giorno dopo giorno.
Ogni tanto penso che a tornare a casa sarà una persona che non era quella che agli inizi di maggio con una macchina piena di scatoloni si é trasferita in mezzo a tutte queste casette del playmobil incrociando la vita.
E non so se sia bene o sia male, o sia semplicemente questione di cose che vanno in un certo modo e non ci si puo' fare niente, ogni tanto l'unica é abbandonarsi alla corrente.