Primo agosto, recuperata Amanda, di nuovo at home.
Devo assolutamente andare al mare, non ne posso più, questi micro-assaggi di acqua marina, spiaggia e sole mi stanno precipitando in una profonda apatia.
Se non stacco la spina non riesco a mettermi a fare niente di nuovo che non sia ordinare gli oggetti sugli scaffali del bagno per ordine di grandezza o vagare su internet alla ricerca di un master o di una specializzazione che gridino
–Frà, eccomi sono quello che stavi cercando-
L’ho detto ieri che mi sento come Charlotte di Lost in Translation (con la differenza che io devo ancora laurearmi –dicembre- e non a Yale ma a Seattle).
Ho fatto foto ma sono mediocri.
Carine, colorate, mediocri.
Rabbia.
Gironzolavo per le vie di Antibes, nella sua notte gialla fatta di pareti che profumano di mare.
Ed è una notte strana, mai buia abbastanza per nascondersi e restare in un angolo, per quanto tu possa cercare di fuggire e mimetizzarti, il pennello del pittore ti raggiungerà ugualmente proprio lì dove ti sei cacciato, senza via di scampo.
Succede che proprio mentre pensi di essere fuggito dalla folla dei turisti, dalle ragazze che dondolano sulle zeppe colorate, dai ragazzi vestiti da rappers e da una babele di lingue e costumi ti ritrovi di fronte a un ristorante pieno di gente e piatti di pesce che brillano o a un negozio di borse di paglia o ancora ad un incantatore di strada che suona la sua fisarmonica e ti porge il bicchiere.
Succede che io fossi lì con la macchina fotografica al collo e una leggera angoscia di fronte a quella luce tanto chiassosa e irriverente.
Mi sentivo spaiata, un calzino bianco che sventolava accanto ad altre decine di calzini colorati tutti meravigliosamente uniformi.
Sono finita a fare un paio di scatti al mercato coperto, alle persone sedute ai tavolini dei caffè, alle statue di Giacometti dritte sul muretto del museo Picasso.
Niente che mi convincesse davanti all’obiettivo e la sensazione di non essere in grado di sottrarmi al trionfante quadro celebrativo delle splendide notti della costa azzurra.
Rabbia.
Menomale che al ritorno al letto di pietra e al cuscino quadrato di Villeneuve Loubet c’era Lou che mi canticchiava nelle orecchie di non preoccuparmi e di continuare a credere nello sguardo circolare,
L’ho detto ieri che mi sento come Charlotte di Lost in Translation (con la differenza che io devo ancora laurearmi –dicembre- e non a Yale ma a Seattle).
Ho fatto foto ma sono mediocri.
Carine, colorate, mediocri.
Rabbia.
Gironzolavo per le vie di Antibes, nella sua notte gialla fatta di pareti che profumano di mare.
Ed è una notte strana, mai buia abbastanza per nascondersi e restare in un angolo, per quanto tu possa cercare di fuggire e mimetizzarti, il pennello del pittore ti raggiungerà ugualmente proprio lì dove ti sei cacciato, senza via di scampo.
Succede che proprio mentre pensi di essere fuggito dalla folla dei turisti, dalle ragazze che dondolano sulle zeppe colorate, dai ragazzi vestiti da rappers e da una babele di lingue e costumi ti ritrovi di fronte a un ristorante pieno di gente e piatti di pesce che brillano o a un negozio di borse di paglia o ancora ad un incantatore di strada che suona la sua fisarmonica e ti porge il bicchiere.
Succede che io fossi lì con la macchina fotografica al collo e una leggera angoscia di fronte a quella luce tanto chiassosa e irriverente.
Mi sentivo spaiata, un calzino bianco che sventolava accanto ad altre decine di calzini colorati tutti meravigliosamente uniformi.
Sono finita a fare un paio di scatti al mercato coperto, alle persone sedute ai tavolini dei caffè, alle statue di Giacometti dritte sul muretto del museo Picasso.
Niente che mi convincesse davanti all’obiettivo e la sensazione di non essere in grado di sottrarmi al trionfante quadro celebrativo delle splendide notti della costa azzurra.
Rabbia.
Menomale che al ritorno al letto di pietra e al cuscino quadrato di Villeneuve Loubet c’era Lou che mi canticchiava nelle orecchie di non preoccuparmi e di continuare a credere nello sguardo circolare,
perchè il resto, prima o poi, verrà da sè.
2 commenti:
seattle, come seattle non-ce-né. tra l'altro è molto simile a "(to) settle", la cui traduzione non fa altro che ricordarmi stabilità, comodità, fissarsi, noia.
Un poco mi ti immagino. Visivamente, voglio dire. Con la macchina al collo, nei colori, nella luce e nel caldo, entrambi troppo potenti per potersi sentire a proprio agio.
E poi mi ti immagino sul letto di pietra con Lou, e ripenso a quell'aneddoto che ti scrissi, che lui si spacca una chitarra in faccia e dice al microfono: scusate, odio me stesso.
Se ci vuole un abbraccio, eccolo qui.
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