venerdì, giugno 09, 2006

ripescaggi

Le date non me le ricordo; spero solo di aver seguito un ordine più o meno cronologico di ripescaggio ma non ne sono molto sicura.

Una solitaria sigaretta serale davanti alla finestra, la torre del castello sta sospesa in mezzo alle nuvole che sono scese bassissime sulla città. Lo studentato è deserto come al solito, rumore di porte che si chiudono ogni tanto, in una settimana qui avrò incrociato sì e no tre persone in ascensore.. Che qui gli italiani non è che siano proprio ben visti, tutt’altro. Il divertente episodio di quando faccio presente alla direttrice che il riscaldamento non funziona e lei per tutta risposta il giorno dopo mi appiccica sulla porta il libretto di istruzioni che già avevo nella stanza. Per un attimo rifletto se farle presente che il problema non è una mia deficienza mentale ma un apparecchio rotto che ha concluso la sua gloriosa carriera con un’ultima breve accensione seguita da un colpo secco e un forte odore di bruciato.
Mi metto una maglia allora, sempre, dopo cena, perché qui non è alto ma è pur sempre circondato dalle montagne, a meno che di non prendere il caffè vicino alle due piastre elettriche che raggiungono temperature vicine a quella del nucleo terrestre.
Apro la finestra appena un po’, arrotolo una sigaretta sottile sottile e mi perdo nelle nuvole basse, mi perdo in una canzone in particolare che parla di me e per me. Past all concerns.
Forse è una storia d’amore o forse no, non ho fatto molto caso alle parole ma solo al lento trascinarsi di una melodia che raccoglie a rete ricordi e paesaggi. E mi è venuto da pensare che sto diventando rinunciataria. Nei rapporti con le persone. Ormai sempre più incline alle occhiate laconiche che alle sanguigne discussioni. Lascio correre, slego e mi sembra di non avere fatto altro negli ultimi trecento giorni, smettere di esercitare la mia forza su certi nodi lasciando che si sicogliessero lentamente, quasi senza bisogno di sottolinearne la perdita. Vivo una solitudine privilegiata in cui compare solo chi, in fondo, a me ci tiene davvero. E per il resto lascio andare, quasi finalmente, quasi perché è un’epocale inversione di tendenza rispetto a come sono sempre stata. Contro la mia natura. Perché quello che cerco io nei rapporti con le altre persone è talmente raro da implicare una forma di solitudine molto vicina a quella assoluta.
E allora mi viene di nuovo da pensare che essere finita qui, in questa città dove non succede mai nulla, che alla mattina presto vedo sfilare sotto forma di palazzi tutti terribilmente art-nouveau mentre fatico e ansimo con la Graziella vintage spaccaculo, era un posto che avrebbe frenato il più veloce dei treni in corsa facendogli pascolare un paio di vacche davanti. Difficile da spiegare perché non l’ho ancora capito bene nemmeno io.




La lontananza è una sensazione allo stomaco, che per qualche secondo sembra volere toglierti il fiato e che lascia dietro di sé una scia nebbiosa di tristezza e rabbia. Rabbia perché le cose da cui si è lontani sono molte meno di quanto si immaginasse. Rabbia perché non si scappa da niente, il conto viene presentato puntualmente senza differenza alcuna. La lontananza è qualcuno che viene a trovarti dal posto in cui stavi e si porta dietro inconsapevolmente, nascosti nelle maniche, problemi a cui credevi di non dover pensare più. E’ una montagna russa la lontananza, certe volte ti fa credere di aver raggiunto una vetta altissima in cui niente potrà più scalfirti o metterti in discussione. E poi invece ti precipita in abissi abituali, come un videogame anni ’80 in cui per quanto ti ostini a trovare una spiegazione logico-razionale finisci sempre per accorgerti che non c’è. La lontananza è qualcosa che ti fa compagnia mentre mangi uno yogurt all’ananas controvoglia e non faresti altro che bere caffè e fumare una sigaretta dopo l’altra per bruciare quel disagio sottile.
La lontananza sono voci al telefono. E’ accorgersi di non riuscire a capire, è sentirsi una persona malvagia, immeritevole. Stare sdraiati su un prato vicino a un lago e sentirsi lontani, commuoversi per una bambina che fa le piroette in aria e viene sempre afferrata dalle mani di suo padre. La lontananza é accorgersi che arriva un punto in cui quelle mani smettono di afferrarti e si comincia a cadere e a imparare come volare in alto comporti sempre grandi rischi.


Certe volte basta il sole a risvegliare le cose felici che dormivano dentro in una zona imprecisata difficilmente raggiungibile in lunghi giorni di pioggia e faccende domestiche sbrigate a sera tarda con un tasso di stanchezza nel sangue molto al di sopra della media abituale.
Cucino con il sole che entra dalla finestra e illumina tutte le pareti bianche della mia stanza-guscio, canticchio a mezza voce Jimmy Cliff e il fatto di aver trascorso più di sette ore a copiare indirizzi a mano e mettere in ordine alfabetico envellopes di inviti non mi urta minimamente.
Lunedì mattina sono all’Università di Savoia a registrare un libro della Sellerio per creare una versione per non-vedenti.
Insomma più vado avanti più nei miei primi 23 anni di vita posso dire di aver fatto davvero di tutto. La Francia è là fuori, con le sue voci-brusio, i suoi supermercati inaccessibili (un peperone costa un euro!) e le sue centinaia di varietà di yogurt di fronte cui mi incanto ogni volta come alice nel paese delle meraviglie.
Infine sembra che per una serie di fortunate casualità riuscirò ad andare al benedetto concerto dei Belle & Sebastian, regalo prezioso cui mi sarebbe davvero pesato rinunciare dato un impellente bisogno di un concerto di primavera. Per ballare, per pensare all’estate che poi per me saranno almeno due mesi di lavoro intenso ma che va bene ugualmente, mi andrà bene anche seppellirmi nell’afoso agosto di Seattle prima di riprendere in mano le redini del mio futuro.
C’è il sole ed è enorme, bianco, luminoso.
C’è l’aria che profuma di trasparenza. C’è il fornello incrostato di cous cous.
Quello che non c’è non fa poi così paura.


Lione è uno di quei posti in cui sei sicuro di avere già messo piede, in una vita precedente o in un sogno, e questa sensazione finisce per accompagnarti da quando scendi dal treno in una stazione un po’ alla Blade Runner fino a quando non vedi scomparire attraverso i vetri di un regionale gli ultimi tetti della città inghiottiti da un tramonto aranciato.
Lione mi è entrata nel cuore, con le sue case, le sue biciclette colorate, i lunghi ponti come braccia che tengono stretta la città attraversata da due fiumi, che vanno e vengono lenti e maestosi, e qualcuno li guarda passare, dei ragazzi che improvvisano delle percussioni, un signore anziano con un cagnolino in braccio, due ragazzine che fumano e devono birra.
Le città che mi piacciono sono città con un aria di grandezza, una certa allure direbbero forse qui e Lione è bellissima nella sua ricchezza, nelle vie del centro piene di locali alla moda, nelle fontane ordinate e perfette, nelle facciate dei palazzi liberty, ma ancora di più Lione è bellissima nella sua miseria, nei vicoli stretti che odorano di alcol e urina, negli intonaci sbeccati intorno a madonne dimenticate, nel milione di scale che portano alla basilica che si erge maestosa sopra la città e regala un panorama difficile da dimenticare.
Lione è bella per la gente di Lione, che prende il sole, suona agli angoli delle strade, guarda le partite di calcio nelle tivù minuscole di kebabbari e ristoranti tunisini.
Mi lascia triste Lione e non saprei nemmeno dire perché.
Forse è solo il terrore di rovinare l’incanto con uno sguardo su un particolare sbagliato o il rimpianto di non poterci vivere per il momento ma di avere la certezza di averci vissuto, una volta, un giorno, un announ sogno.
Finisce che mi piace una solo foto di quelle che ho scattato.
Ed è un panorama invisibile in cui ci sono solo schiene e ombre e persone che indicano il paesaggio e lo guardano e basta e non si rendono conto di come anche il mondo le stia guardano in quel momento e di come le loro schiene scure siano il paesaggio più bello.





3 commenti:

Anonimo ha detto...

Mi commuovo come un bimbo leggendo...
Per la voglia di smettere Parigi, per la nostalgia di tutto ciò che non conosco, per la bellezza delle parole, dello scrivere, dei suoni.
Per la familiarità, la mia, con certe sensazioni, le tue.

Questi giorni penso che bisognerebbe cambiare vita. Come in un poema di Ferlinghetti, in cui lui dice "Forza, su, andiamo", e vuole diventare un barbone, andare a vivere sotto i ponti, cose così.
E' tutto troppo giusto o troppo sbagliato, ecco.

Lucio

Cilions ha detto...

Vercelli alias "La Seattle del Piemonte"... bella questa;)

Mi trovo qui per caso... beh, trovare un blog "concittadino" fa piacere!
Ci passerò di tanto in tanto... promesso!
Ciao

quel che sapeva frà ha detto...

Un benvenuto a francesco, omonimo concittadino di Seattle :P

Lucio, questa Francia confonde...