giovedì, agosto 31, 2006

au revoir


Che sia l’ultimo post francese questo è certo.
Che sia l’ultimo post di questo blog è probabile.

Chambéry che è una piccola città playmobil.
Le signore arabe che alle cinque del pomeriggio si siedono su una panchina vicino alla mia residence e restao nell’ombra a chiacchierare con i veli colorati e le facce rugose.
Il rottweiller del mio vicino di casa che mi ha rotto l’anima in più di un’occasione ma poi una volta, mentre gettavo l’immondizia, si è avvicinato all’improvviso e si è fatto accarezzare come un coniglio bianco.
I codici per tutto: il bancomat, le schede telefoniche, l’ingresso al consolato, l’ingresso alla residenza, l’ingresso alle e-mail di chi non riesce a leggerle. Li ho imparati a memoria, non so come.
La passeggiata sempre la stessa e sempre identica tutte le mattine cadenzate al ritmo di musiche pressoché invariate tali poi da costituire la colonna sonora di questo andata e ritorno rituale.
La vetrina del Dauphiné Libéré in cui specchiarsi per controllare di essere sufficientemente pettinata (n.d.r. una mattina mi ci sono vista specchiata con una specie di rasta in mezzo alla testa)
Il maledetto multicolore e multicaro Monoprix con i suoi infingardi yogurt che occhieggiando dalle loro brillanti confezioni reclamavano di essere mangiati.
LA CREPE di AIX LES BAINS. La CREPE.
L’ossessione continua per i soldi: ne avrò abbastanza? E se finisco la scheda e mi tocca di nuovo chiamare dalla cabina piena di falene e zanzare?
Il colore del cielo. Che in Francia è diverso e mi rendo conto si possa non essere d’accordo ma se Van Gogh e Cezanne e compagnia briscola hanno scelto di dipingerlo un motivo ci sarà.
Le farfalle, per la strada. Una cosa che nella Seattle del Piemonte mai mi è successa, di vederne così tante volare dappertutto come piccole piume alate alla Forrest Gump.
Sapere se pioverà o meno in base all’odore di caffè (n.d.r. non si tratta di una branca minore delle arti divinatorie ma c’è una torrefazione vicino al Consolato e se gira il vento e porta l’odore di caffè pioverà nelle seguenti dodici ore. Comprovato)
Non ricordarsi più cos’è la televisione e ricominciare un rapporto totalizzante ed erotico con la lettura. Il piacere di leggere, come quello di mangiare una tartiflette ben fatta in una serata di pioggia.
Le cortesie, le gentilezze millantate, i je vous en prie, i desolée.
Quella certa silhouette delle montagne dalla mia finestra, una specie di righello nel cielo dorato delle sette di sera.
Sentirmi stanca ma, nonostante tutto, soddisfatta.
Celia che dice orgiiia credendo significhi casino.
Alexandra che parla a raffica e non se ne rende conto. E che fa l’insalata di lenticchie fredde buona.
Suzie con cui non ci si riesce mai a mettere d’accordo per vedersi ma poi alla fine ci si vuole un gran bene.
Emilie così timida e riservata che all’inizio avevo paura di romperla con la mia veemenza.
Il Console che forse dopo 4 mesi ha capito. Che sono una persona seria solo per metà e che pur essendo ariete se mi si maneggia con delicatezza mi rovescio corna all’aria.
I cereali mangiati a manciate di nascosto nei momenti no. Che sono i momenti in cui ti chiedi se è rimasto qualcosa in frigo, lo apri e ti rispondi “No”.
Guardare quattro film di fila, alzarsi dal letto e non capire più niente.
Accorgersi che i bei tempi in cui non bastavano quattro bicchieri di rum a farmi ondeggiare sono passati. E che oggi dopo mezzo bicchiere di vino sono ubriaca.
Place Saint Léger con i caffè e la fontana e i negozietti quelli in cui porteresti a casa tutto. Maledetto Pier Import.
La Frite Dorée. La patatina dorata. Che non è il nome di una pornostar ma di un luogo di conforto per stomaci affamati e portafogli anoressici. Dieci euro di carne e patatine a volontà.
Il Pastis che mi fa schifo.
Il Kyr Cassis che è tutta vita.
I vini di Savoia che mi piacciono da morire e mi fanno ubriacare vedi sopra
Il lago di Acquabellina (Aiguebellette) con le paperelle e le barche a remi e un gruppo di russi che si esibisce in un tremendo spettacolo kitsch con tanto di matrioske (ici poupées russes)
Il Buisson Rond. Un parco bello, che la prima volta che ci sono stata mi stavano per violentare però un attimo prima avevo pensato che gli alberi erano proprio stupendi.
Essere sopravvissuta alla mia quasi-coinquilina. Che più mi sforzo e più non riesco tutt’oggi a trovare un episodio simpatico che la veda protagonista. Grazie di avermi dimostrato che il mio vaso prima di traboccare ha la stessa capienza di una petroliera.
La direttrice pedagogica che mi ha insegnato un sacco di parole e volgarissimi detti popolari in abruzzese. E che è stata un’ancora felice nei primi tempi in cui ancora dovevo imparare ad allacciarmi le scarpe e a rispondere Merci.
Leggere in francese e finalmente CAPIRE. Considerando che sono partita dalle confezioni dei Choco Pops.
Accorgersi che la lavanderia ha chiuso alle sei e che tu avevi tutte le coperte in lavatrice.
Guardare tramonti senza dire una parola.
Aprire gli occhi la mattina e stupirsi della perfetta razionalità del mio orologio biologico che mi preserva dall’infarto miocardico dettato dalla mia insopportabile sveglia sottoprezzo.
L’aria fresca che di solito è una cosa che si legge solo nei romanzi del dopoguerra e nei discorsi tra vecchi di paese. Ma qui uscire e prendere un po’ di aria fresca è meraviglioso.
Finestre aperte per la maggior parte del tempo.
Misurare distanze, vuoti e presenze.
Il disordine sempre e comunque alternato a momenti di ordine compulsivo e folle ripiegamento di vestiti e lenzuola.
La sera in cui traduco ai miei amici francofoni tutte le canzoni in dialetto vercellese e scopro che in molti casi le rime più scurrili restano tali.
Lacrime.
La prima volta che al telefono ho detto che avrei cercato una foglia invece che un foglio.
La prima volta che una signora alla stazione mi ha detto che non aveva capito che ero italiana.
La prima volta che ho dato indicazioni stradali e mi sono sentita un po’ meno ospite e un po’ più di qui.
Il mio vecchio ordinateur portatile che scricchiola e borbotta sempre di più ma che mi ha permesso l’ascolto pressochè ininterrotto di miliardi di canzoni.
Il passaggio di consegne alle ragazze italiane che verranno a prendere il mio posto; capisci che sei stato un po’ di tempo da qualche parte quando impari a snocciolare nomi di posti e vie con una precisione scientifica.
I viaggi in treno, imparare a memoria i profili delle montagne.
Sentirsi spesso sospesi, come in un elastico salto al rallentatore con le braccia protese in avanti e i piedi che volano sul vuoto.
Annecy che mi piace sempre e comunque.
Lione che mi ha rapito il cuore e che mi ha chiamato per nome.
Arles e il giardino dell’ospedale di Van Gogh pieno di fiori che ti strappano il cuore.
Il mare freddo e meraviglioso.
Paesaggi-cartolina nella testa, qualcosa di cui non parlerò a nessuno probabilmente.
L’ultimo sabato pomeriggio trascorso a leggere, dormicchiare e cercare di non abbandonarsi a facilissime malinconie.
L’ultima domenica sera a preparare una cena casalinga e a osservare stupita il primo tramonto dai colori autunnali.
Settembre che mi riporta a casa,
ed è già passata l’estate.

giovedì, agosto 17, 2006

*Quello che non c'é (l'estate, ad esempio)

Sentirsi scivolare sotto i piedi questi ultimi giorni francesi, un tapis -roulant di mesi che sta arrivando al nodo finale, al suo estremo e si prepara a dichiararsi fuori servizio come tutte le cose di cui rimane solo una piccola parte, a dispetto delle altre che si cancellano nell'economia generale dei ricordi.
La strada che hai percorso tutti i giorni, le orme invisibili dei tuoi piedi che solo tu puoi riconoscere, sempre nella stessa direzione, avanti e indietro per una città che non si ricorderà di te e che non hai amato con la testa e col cuore ma che ringrazi profondamente per averti permesso una delle liberà più grandi, quella di prenderti in considerazione, di pensare a te stessa spesso, durante ogni giornata, davanti allo specchio o a una finestra, o al supermercato.
Non sei più abituata agli addii o forse, tout simplement, non ci credi più, per quella cosa di sopra, perché di tutto resta una parte e di tutti, e continua a viverti dentro finché diventa talmente tua che non la percepisci più come estranea, esterna.
Ed é bello vivere per poter raccontare, per poter diventare scatole piene di storie proprie e altrui ed é necessario affrontare con passione il mondo, anche se straniero, anche se lontano e diverso, perché é l'unico modo di farsi erodere dal torrente degli avvenimenti e diventare più sensibili e sentimentali, senza inaridirsi mai.

martedì, agosto 08, 2006

Torno subito

L'estate 2006 passerà alla storia come un periodo infinito e indefinito, forse perché l'ho passata a lavorare, in un posto fuori da tutto quello che di solito é estate per me, Seattle che suda, Seattle che fa un tuffo in piscina, Seattle che cerca invano un nuovo spray antizanzara che faccia il suo effetto.
Svegliarsi la domenica mattina e non sentire niente di niente, solo il fischio di qualche treno e la televisione a volume spropositato del vecchio pensionato di fronte, che la guarda sul balcone, per prendere fresco.
Queste cose sono forse mancate ma ce ne sono state altre.
La mattina presto gli alberi che ondeggiano, innumerevoli foglie che si sfiorano e producono lo stesso rumore di una pioggia strana e magica. Per dirne solo una, che non é ancora momento di bilanci.
E.
Chambéry é The Truman Show e un po' anche Mullholland Drive.
L'estate 2006 é un po' anche autunno, prima del previsto.

*Questo blog abbassa le serrande fino al 16 agosto*

giovedì, agosto 03, 2006

I pomposi poeti che ti fregano quando meno te lo aspetti

Ascolta.
Piove dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici salmastre ed arse,
piove sui pini scagliosi ed irti,
piove sui mirti divini,su le ginestre fulgenti di fiori accolti,
sui ginestri folti di coccole aulenti, piove sui nostri volti silvani,
piove sulle nostre mani ignude, sui nostri vestimenti leggieri,
su i freschi pensieri che l'anima schiude novella,
su la favola bella che ieri l'illuse, che oggi m'illude, o Ermione

Non ho mai avuto grande simpatia per Gabriele D'Annunzio.
Ho il ricordo terribile di una gita scolastica al Vittoriale, quella casa piena zeppa di soprammobili di ogni foggia possibile e noi poveri studenti che ci aggiravamo per stretti passaggi con i nostri enormi zaini, come elefanti in un labirinto di cristallo.
Al termine della visita ero giunta alla conclusione che il D'Annunzio fosse una sorta di Renzo Arbore del passato, con uno smodato gusto per il kitsch e un'ossessione totalizzante per il suo ego smisurato.
Potrei qui generalizzare dicendo che solitamente non nutro molta simpatia per le persone di ego smisurato, che in Francia chiamano i signori Moi-Je, dimostrando quanto i francesi sappiano essere sottili nel demolire chiunque con il più assoluto charme e senza possibilità di replica.
E quindi preferisco gli sfigati talentuosi, quelli che dopo morti tutti si accorgono del loro enorme potenziale e scrivono libri e raccolgono interviste e domandano e chiedono e soprattutto si domandano perché non se ne sono resi conto quando ancora questi poveri tizi stavano in vita. Ma il successo e il talento sono canali che non sempre si incrociano, e spesso molti geni rimangono nel più totale anonimato continuando a rosicare i loro problemi di sempre, l'alcool, la droga, le donne, la povertà, gli squilibri psicologici, madri invadenti e padri rompipalle.
E diventano affascinantissimi per quella loro strana indole che li porta a creare opere meravigliose rimanendo profondamente umani e forse più umani degli altri, senza sentire la necessità di farsi incensare dalla stampa o essere accolti nelle cerchie degli intellettuali più in.
Poi pero' oggi piove.
E, a tradimento, sul più bello di una silenziosa e modesta osservazione degli alberi del parco che attraverso la mattina per venire a lavoro, per tuffarmi nel mio brodo tranquillo, nella mia pîù profonda umanità, sento la voce di quell'omino piccolo e baffuto e borioso che sussurra:
- Francesca. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse -
E non posso che ammettere che, a dispetto dei miei principi e dei miei generalismi, non c'é niente da fare, Gabriele d'Annunzio mi ha fregato ancora una volta.

mercoledì, agosto 02, 2006

Volevo essere sincera

Il mondo é dei più furbi.
Punto e basta.
Tutti i cinici, gli opinionisti, le nonne, i nonni, i genitori già inaciditi dal mondo del lavoro hanno ragione.
Il mondo é dei più furbi, di quelli che l'importante é apparire e schiamazzare, di quelli che la prima cosa la mattina sono loro e la seconda pure, di chi non chiede per favore per prendere ma prende e basta, di chi parla solo dei fatti suoi e non ascolta quelli degli altri, di chi l'importante é guadagnarci sempre e comunque.
Fiera da sempre di non appartenere al mondo dei furbi oggi mi ritrovo a pensare che tutto il mio costante e pervicace lavoro silenzioso per rimanere sottotono, per fare le cose che devo senza avere la pretesa che siano gesta mitiche e irrinunciabili é una perdita di tempo e un errore.
O meglio; non é affatto un errore ma lo é l'assurda speranza che i furbi si ritrovino di fronte a qualcosa di diverso e ci pensino un po' sopra.
Perché i furbi vanno come carriarmati e l'unico augurio che mi sento di far loro dal profondo del cuore e di non doversi ritrovare mai, per nessun motivo, nei panni di chi furbo non é, e mastica amarezza e la mescola con la consapevolezza di fare del bene, sperando di migliorarne il sapore.